Appendice tre. Valentine de Saint-Point, ovvero, Behind the green door.
Evitiamo da subito un equivoco, Dietro la porta verde (1972) c’è Marilyn Chambers e non le novantatre note che nella Boîte verte (The green box) dissezionano la sposa-amante-sorella di Marcel Duchamp.
Il rinvio a Marilyn Chamber è il pretesto per ricordare la tesi che una giovane e coraggiosa donna ha avanzato in uno dei manifesti minori, non per questo meno importante, del movimento futurista.
Bisogna fare della lussuria un’opera d’arte.
Va da sé, l’occasione è il centenario di questo movimento che, per convenzione, cadrà il prossimo 20 febbraio.
Quando vi serviranno le armi, sarà lei ad affilarle.
(Valentine de Saint-Point)
Uno.
Vediamo il contesto.
Nel diciannovesimo arrondissement di Parigi c’è un parco, le parc des Buttes Chaumont.
Non è un parco come tutti gli altri. Ha delle scogliere alte più di trenta metri, grotte, platani antichi, un lago.
In mezzo al lago c’è un’isola, l’Île du Belvédère, quest’isola è congiunta al parco da un ponte, detto dei suicidi, in pietra, e da una passerella sospesa, in legno.
In cima all’isola c’è un tempietto, intitolato alla Sibilla, che s’ispira all’omonimo tempio di Tivoli, vicino a Roma.
Questo tempietto è anche detto dell’amore. Inutile aggiungere che è stato per anni uno dei luoghi più amati dai surrealisti.
Ora, se per caso, in una delle gelide mattine dell’inverno del 1909, qualche flaneur, sfidando il gelo, si fosse avventurato nel parco ed avesse alzato lo sguardo, passando dal ponte al tempietto, avrebbe assistito ad uno spettacolo singolare, ma non inconsueto, se crediamo ad André Breton quando scrive che questo ponte sospeso è sospeso alle labbra delle donne.
Sotto la piccola volta del tempietto, infatti, avrebbe scorto un’affascinante giovane demoiselle seduta su un basamento di pietra con il corsetto di velluto aperto, i seni esposti al vento freddo, ed un uomo, più vecchio, con la testa infilata tra le sue cosce.
Avrebbe ascoltato il suo ridere e goduto della sua impudicizia.
Un paio d’anni dopo questa giovane scriverà nel Manifesto della Donna Futurista:
“Le donne sono le Erinni, le Amazzoni, le Semiramidi, le Giovanne d’Arco, le Jeanne Hachette, le Giuditte e le Carlotte Corday. Le Cleopatre e le Messaline, le guerriere che combattono con più ferocia dei maschi, le amanti che incitano, le distruttrici che – spezzando i più deboli – agevolano la selezione attraverso l’orgoglio e la disperazione, la disperazione che dà al cuore tutto il suo rendimento.”
L’autrice di questo manifesto, la conosciamo con lo pseudonimo di Valentine de Saint-Point, di professione, come fu detto, un’avventuriera della scrittura.
Si chiamava Anna Jeanne Valentine Marianne Desglans de Cessiat-Vercell, era nata a Lione nel febbraio del 1875.
Nel 1909, a Parigi, conobbe Marinetti, lo sedusse. Nel 1912 scrive il Manifesto della Donna Futurista, costituisce una risposta al punto nove del Manifesto di fondazione del movimento che recita: “Vogliamo glorificare la guerra, sola igiene del mondo, il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore degli anarchici, le belle Idee che uccidono e il disprezzo della donna.”
In questa storia ci sono due Valentine.
La prima è figlia di una borghesia di provincia, che si compiace dei suoi rapporti di parentela con Alphonse de Lamartine – Saint-Point era il nome del suo castello – si sposa a diciotto anni con un grigio professore di filosofia di paese, lo tradisce da subito con un collega di costui, rimarrà vedova sei anni dopo.
Contrae un nuovo matrimonio con un politico di provincia che pungola e, in qualche modo, riesce a far diventare un ministro della terza Repubblica, ma non sopporta la sua mediocrità e nel 1904, pur di liberarsene, accetta un divorzio per colpa, che farà scandalo.
Tagliato l’orrido serpaio dei rapporti familiari può dedicarsi alla poesia e all’arte.
Un poeta, Arthur Rimbaud, qualche anno prima aveva intuito che la donna poeta, liberata dalle costrizioni sociali, avrebbe trovato nella poesia “cose strane, insondabili, ripugnanti, deliziose”.
Rimbaud, il veggente: dall’alcova della poesia simbolista nasce un’altra Valentine.
È una donna bella, diventerà una libertina, come la Roberte di Pierre Klossowski aveva scoperto che il suo corpo era la sua anima.
Parigi, che attende la sua apoteosi, attraversando quella che Paul Morand ha definito la decade dell’illusione, precipita intanto nei pettegolezzi, le attribuiscono numerosi amanti, tra i quali Auguste Rodin, grande scultore, ma anche un anziano satiro con gli acciacchi dell’età, e Alfons Mucha, quello che abbiamo lasciato con la testa tra le sue gambe.
Per Rodin è un’ossessione, è “la dea di cui vorrebbe mutare in marmo la carne”.
Poi ci sono gli amanti occasionali, ma non contano, e un grande amore libero con un italiano, Ricciotto Canudo, durerà qualche anno.
Con lei ci provano tutti, compreso Gabriele D’Annunzio e Rachilde, ovvero, Marguerite Eymery, una garçonne che ha uno dei salotti più invidiati di Parigi, autrice di decine di libri tra romanzi e racconti, tra cui lo scandaloso Monsieur Vénus, sottotitolato, Un romanzo materialista.
Discutono più che di sesso, di sessualità. Rachilde è interessata a quel fenomeno che oggi chiamiamo transgender, Valentine né approfitterà per definire quella che lei stessa chiama la virilità femminile. Non si deve dimenticare che la stagione degli scherzi collegiali a spese della donna sono all’ordine del giorno. Nel 1919 Marcel Duchamp mette i baffi alla Gioconda, poi glieli rasa, perché la “Mona Lisa” deve avere la passera liscia, come le sventurate di ”you-porn”. Naturalmente non si butta via niente, i baffi rasati li ritroveremo in With my tongue in my Cheek. Una maschera mortuaria che anticipa il falso realismo ospedaliero di Andres Serrano.
Nella capitale francese Valentine si dedica alla scrittura, alla danza, alla poesia, ai piaceri e al desiderio. Canta il furore dei sensi, la confusione dei ruoli amorosi, inventa un nuovo modo di pensare il corpo della donna. Un corpo che si distende dentro le pieghe opache della corporeità della sostanza femminile. Un corpo che invera quella che Friedrich Nietzsche chiama volontà di potenza. In breve, Valentine si rivolta contro la costruzione culturale del femminile.
Per lei la lussuria ha le ragioni di una forza, esprime la natura animale della sessualità e il suo riscatto, ne farà un manifesto, il secondo, che pubblica nel gennaio del 1913. L’equazione è semplice quanto esemplare: la lussuria è arte.
Per la seconda volta lascia i futuristi perplessi. Da italiani-brava-gente si rifugeranno nell’apologia della prostituzione. Le donne sono l’incarnazione del vizio, se si pagano le mani tornano pulite, niente contaminazione con le carni che ti afferrano all’inguine. Italo Tavolato ne scrive un elogio. Non dispiace alle poetesse strette intorno a Marinetti, tra le quali spicca Maria Goretti, traduttrice di Platone ed omonima della santa.
L’esuberanza o la fluità del desiderio, che la lussuria lega etimologicamente alla vegetazione e dunque, alla natura, così come al lusso, ci avvicina ad un elemento fondamentale del piacere, l’eccesso – questa fame di abiezione – contrario della misura.
Per evitare ogni fraintendimento va detto che banalizzare la lussuria ad appetito sessuale è solo un’invettiva di beghine. La lussuria è piuttosto passione che straborda, che non conosce la misura, è il cavallo nero del Fedro di Platone, recalcitrante, irascibile, istintivo, dalle nari dilatate. È l’inconscio di cui parla Sigmund Freud. L’inno all’amore chiuso in un bacio, quello di Paolo e Francesca. È il sogno di Marco Cavallo che sfilò per le strade di Trieste per annunciare che le mura della follia erano cadute. Per Valentine è la scoperta del dispendio, dell’insondabile piacere femminile che mette a nudo l’insufficienza del principio maschile dell’utilità, è un elemento essenziale del dinamismo della vita.
La lussuria, per Valentine de Saint-Point, rappresenta la realizzazione diretta delle passioni, in questo contesto è arte senza la necessità di essere trasfigurata dall’inautenticità.
Nonostante il diluvio annunciato, fin a questo momento nessuno si era accorto che il senso del secolo non era più rappresentato dal contenuto dell’arte classica e che la sua scomparsa sarebbe stata l’argomento delle avanguardie storiche.
“Il faut changer la vie” era stato il motto paradigmatico di Arthur Rimbaud, partigiano sugli spalti poetici della Commune. La lussuria, agli occhi di Valentine, sembrò per qualche istante lo strumento che la condizione della donna rivelava alla vita corrente.
Sublimandola nella metacoria – una teoria della danza moderna, che elabora e porta sulle scene – la tecnica psico-analitica ci rivela la sua versione edipica: l’illusione di Valentine di aver trovato un significato costituente in rapporto al significato sociale della condizione femminile, di essere – questo divenire – ciò che frantuma l’imago che impedisce alla donna il godimento. Non è capita se non nella misura dello scandalo che solleva, poi sisorride. Scadendo, per fatalità dei tempi, ad una forma di idealizzazione la sublimazione produce valore, si riduce ad arte, diventa una problematica meramente etica. La lussuria soccombe alla potenza retorico-linguistica dell’inconscio. Non era quello che voleva. Nella sublimazione artistica il soggetto è costretto a confrontarsi con la “legge” invece che con il vuoto della “cosa” perché la sublimazione è nella forma di un destino imposto alle pulsioni dalla civiltà. Non le resta, a Valentine, che l’attività creatrice, ma non le basta.
Qualche anno dopo, a Il Cairo, dov’era naufragata, fu accusata di essere una spia al soldo della rivoluzione bolscevica, per aver appoggiato il nazionalismo arabo contro il mondo occidentale, per essersi apertamente dichiarata antisindacale, anticlericale ed antiparlamentare. Il suo ultimo libro, L’agonia di Messalina, passa inosservato. Finirà nelle grinfie di un bastardo reazionario, René Guénon, affondando il resto della sua vita nell’esoterismo e nella miseria.
La sublimazione, come scrive Freud è estremamente plastica, ma non è totalizzante. Una donna aveva osato elevare la lussuria alla dignità di quello che sarà detto in chiave analitica l’object petit “a”, ma di fronte all’inacessibilità della Chose, del suo paradigma, era stata costretta a dirottarla nella passione poetica, nel pudore – che Freud indica come una forma reattiva che sta dalla stessa parte della sublimazione – pudore che le circostanze legano alla rimozione, al ritorno del rimosso. Mezzo secolo dopo George Bataille in La notion de dépense inscriverà l’attività sessuale perversa tra quelle arti che sono il fondamento della vita vissuta. Invano, visto che il sesso, la festa, il sacrificio, il riso, che al tempo di Lascaux attraverso il “sacro” mutava gli uomini in creatori, sono ora l’altra faccia di un potente feticcio: la forma di merce.
Andiamo, allora, dietro la porta verde che si schiude su una legittima suspicione.
Due.
Da tempo l’arte non è altro che un riflesso della forma di capitale giunta ad un modello economico di completa irresponsabilità, nelle cui smagliature, assieme alla politica, diviene sempre di più il risultato perverso di ciò che, nel primo libro di Il Capitale Karl Marx definisce il feticismo della merce. Ciò implica che entrambi possono entrare in crisi solo per cause endogene, precisamente ogni volta che la merce trabocca dal vaso delle sue illusioni. Fino a allora appaiono come categorie governate da paradigmi differenti. Più precisamente, è la forma di spettacolo e le sue anestesie che finisce per rendere simile la situazione dell’arte e quella della politica, soprattutto a partire dall’année terrible, con una sola differenza che il dissolversi della prima ha anticipato il putrefarsi della seconda. Nell’intervallo abbiamo visto una estetizzazione della politica che, nel 1936, Walter Benjanim già descriveva come il frutto avvelenato dei regimi totalitari e dei movimenti simbolisti ed occultisti del secolo precedente.
Come emerse dalla polemica all’inizio del Novecento sulla classificazione dei reperti nei musei di antropologia culturale – vale a dire, se ciò che in essi era contenuto dovesse essere inteso come un’espressione artistica – l’arte non è un fatto che si constata, ma un concetto che si presenta, sotto l’aspetto fenomenologico, strutturato con le forme storiche da cui riceve un senso, non è un mezzo neutro, una forma che si rinviene in tutte le società, suscettibile di essere riempita di non importa quale poetica, ma è divenuta una possente forma di socializzazione delle culture che si fondono sulla produzione mercantile. Di più, oggi l’arte invera una delle imbastiture necessarie alla società dello spettacolo senza la quale si dissolverebbe la sua fittizia unità, tanto che il suo destino nella modernità risulta legato indissolubilmente alla traiettoria storica della merce. I lamenti di coloro che disapprovano il divenire spettacolo dell’arte, non tengono conto che in questione non è la sua progressiva denaturazione ma, al contrario, è semplicemente il compimento della sua logica storica.
Dentro questo paradigma, riducendo il reale a rappresentazione, l’arte moderna lo sfigura a una reliquia del vissuto e fa dell’astrazione il modo concreto sotto cui l’opera d’arte appare. Come è noto, il valore delle opere è da tempo determinato dalla qualità dell’ideologia che contengono come “apparato” ed essa è così sostanziale che annulla tutte le differenze di stile e di poetica con le quali sono state immaginate. Così, il loro valore d’uso diviene la forma fenomenica del suo contrario, il valore di per sé. Questo valore d’uso si conclude poi nel processo di museificazione, che socializza l’opera nella sua forma finale di merce, chiudendo il cerchio dell’astrazione e della sua tirannia mercantile. Una tirannia che si accontenta di regnare sulla barbarie della decomposizione sociale, che l’arte ha anticipato, e non occorre governare per farla fruttare.
In un tale processo l’arte diviene un reliquiario, vale a dire, l’apparente espressione di quella coerenza di parte che la realtà, come un tutto, ha perduto da tempo. Ne consegue che il ruolo dell’arte è ora indispensabile ai processi di estetizzazione del mondo, ma è un ruolo subordinato, esattamente quello che le compete, perché dopo la breve stagione delle avanguardie storiche non ha più goduto di alcuna autonomia. Per tanto, le divergenze tra le poetiche si sono ridotte a niente, anche quando mescolano morale ed affari, confondono il tramonto della rivoluzione con il mattino dei maghi.
György Lukács ne aveva concluso, al tempo di Storia e coscienza di classe, che la riflessione sulle arti doveva diventare una riflessione sulla forma di totalità di cui queste erano complici, in sostanza, della forma di merce che le condiziona. Ma si sa, gli artisti hanno orecchie da mercante e continuano a parlare di libertà (e non di liberazione) perché si credono “liberi” di astrarsi da tutte le limitazioni imposte dalla natura di feticcio della merce, che la società, volente o nolente, impone a tutti. Hanno dimenticato che un tempo l’artista componeva, ma come comporre con la forma di merce? Non ricordano che in Il disagio della civiltà, Freud aveva ridicolizzato l’illusione di un’identità tra libertà e pensiero? Ignorano le parole del “livellatore” Wildman che nell’ottobre del 1647, a Putney, un piccolo sobborgo di Londra, rivolgendosi ad un’assemblea di soldati disse loro: “Poiché non c’è nessun rimedio, occorre ricominciare tutto da capo e voi non ignorate il modo!”
Qui, l’eloquenza del denaro – che invera le forme sensibili del valore – rappresenta un a priori della domanda di potere culturale e, al contempo, delle deformazioni specifiche che la forma di valore infligge alla cosiddetta opera d’arte. Un gioco, aveva osservato ironicamente Balthasar Gracían, dove tutto tiene. “Il medico maldestro, che non è riuscito a guarire il malato, non manca mai di richiedere l’aiuto di un altro medico che, con il nome di consulto, l’aiuta a sollevare la bara.”
In ogni caso, la scomparsa dell’autonomia dell’arte moderna non è avvenuta con un bang, ma con un piagnisteo. Un piagnisteo, dice Thomas Stearn Eliot, che ha contribuito a spingere più avanti – anche grazie alla avanguardie – le frontiere della rappresentazione, nella forma di un paradigma morcelée di una verità insensibile. Tutto ciò deriva anche da un’altra circostanza, dall’equivoco che le avanguardie storiche si sono trascinate dietro a cominciare dalla loro nascita, di apparire più convincenti come un’elaborazione critica di nuove forme, invece che di un progetto di distruzione di quelle vecchie.
In questo contesto s’inveravano come una critica pratica delle sovrastrutture culturali, ancorate ad una fase storica della società nella quale domina un’organizzazione sociale fondata sull’economia mercantile. Tale circostanza ha indotto le successive avanguardie, salvo rare occasioni, ad apparire acritiche indipendentemente dalle loro intenzioni. Così, il neo-dada prima e Fluxus dopo hanno celebrato l’infantilismo – che gli veniva riconosciuto come merito – come l’aspetto innocuo di una pulsione ludica e la pop–art l’aspetto escrementizio della società dei consumi, restando al di qua della contraddizione tra ciò che degradava la vita sociale e la logica di autovalorizzazione del capitale.
Non potendo essere diversamente, lo iato tra la realizzazione dell’arte nella vita e la sua promessa di bonheur, è rimasto incolmato e l’arte, come menzogna, ha cominciato a mentire a se stessa. Più semplicemente, nei musei non ci sono che menu, servono delle poetiche, di cui vantano la qualità, sotto forma di semplici immagini. Con più efficacia afferma Jean Clair, “dipingere è una cucina dove spesso si utilizzano gli avanzi”. Siamo anni luce lontani dal “mi piace l’insalata” scritto su L’oeil cacodylate di Picabia e sodali, come dalle bottiglie di champagne che Nancy Cunard offriva a questi rivoluzionari senza rivoluzione, prima di dedicarsi alla causa dell’antifascismo.
Per uscire dall’empasse occorrerebbe rifondare la techne alla luce della poiesis – la ricetta è di Martin Heidegger – ma è un’aporia, il mondo non si può abitare poeticamente perché la sostanza di cui è fatto ci riporta alla cosa, al pro-dotto attraverso cui la tecnica c’infligge l’esperienza della delusione.
Di più, se il fine del fare arte è il fare stesso, il prodotto non raggiungerà mai il suo progetto. Del resto, la forma di merce è il Bestand, lo sfondo, che assicura all’arte un’autenticità alienante, al di là di ogni principio di speranza, una hybris che accoglie l’arte come nostalgia.
Nei suoi aspetti più radicali la distruzione dei valori formali è sembrata essere una volontà di rifiuto da parte delle avanguardie di rappresentare un alibi al linguaggio fittizio di una totalità sociale inesistente. Contestualmente, però, queste stesse avanguardie non hanno saputo inverare la necessità di ritrovare un linguaggio comune, favorendo una decomposizione delle arti che ha paradossalmente innalzato l’incomunicabilità a valore in sé. Non è difficile costatare come a partire dalla fine della seconda guerra mondiale l’arte non è più riuscita ad esprimere ciò che potrebbe dissolvere l’ordine sociale, riducendosi ad una ideologia che continua inutilmente a proclamare la bellezza della dissoluzione del senso.
Come ha ironicamente commentato Theodor W. Adorno, i contestatori, da tempo, non sono al di sopra, ma al disotto della cultura. Essi non esprimono che una maniera di adattarsi, di relegare la funzione critica dell’arte al fatto di non servire a niente, rinunciando sia al godimento che all’intervento nella praxis. Nella sostanza appaiono come le vittime di una reificazione che per Lukács è la forma fenomenica del feticismo della merce o, meglio, l’enigma della sua struttura, che relega l’uomo a spettatore in una società che è la glaciazione visibile del vissuto.
Una glaciazione che prima delle avanguardie era apparsa come una nostalgia dell’autenticità, la cui perdita brilla nell’opera di Gustave Flaubert, in particolare nel suo capolavoro incompiuto, Bouvard et Pécuchet.
C’è da osservare che l’arte in generale, ma anche tutto il movimento operaio, non hanno, nel loro tempo, saputo decifrare questo processo di dissoluzione della vita corrente come l’altra faccia di una banalizzazione assiologia dell’esserci, né riconoscere nella disgregazione generale della modernità una vittoria della forma di capitale, da cui è derivata, da subito, una concezione poliziesca della storia.
Così, la distruzione, che Stéphane Mallarmé ha invocato come la sua Beatrice, si è realizzata in un altro modo, come ciò che è precipitato per trasformare il mondo in merce, innalzando l’irrazionalità dell’arte a metafora dell’irrazionalismo dell’organizzazione sociale. Tutto questo lo coglierà con acume György Lukács, quando metterà in luce l’agghiacciante coincidenza tra la dissoluzione delle forme artistiche e quelle sociali, spiegando come nella prima dissoluzione c’è l’apologia della seconda o, più cinicamente, come la gloria dell’una passa spesso per gloria dell’altra.
Dopo l’amara vittoria del surrealismo, che ha voluto realizzare l’arte senza distruggerla, la volontà di andare oltre l’arte si è mutata in un oggetto da museo, un luogo in cui è inglobato anche tutto ciò che l’ha contestata o la contesta. È divenuta una punizione che annienta. Infatti, è nei musei che gli dei diventano statue, perché nei musei tutti gli altri sguardi sono esclusi o risultano impuri. Sono sguardi, desacralizzanti. Il superamento, dunque, non poteva essere inscritto se non nel progetto di una rivoluzione sociale che fosse all’altezza delle promesse contenute nell’arte. Occorreva pensare l’opera come un sapere e non come un feticcio del potere della merce e dei suoi ukaze. In altri termini, occorreva spezzare la passività che l’arte, come una forma di merce, impone a chi la contempla. Occorreva abbandonare l’illusione che nella modernità ci siano le condizioni dell’uomo come soggetto, mostrare la dominazione esercitata dalle forze astratte del potere, la perdita del senso, la distruzione dei linguaggi, la banalizzazione dell’esperienza.
Queste forze astratte furono intuite e denunciate da Lukács, che propose un falso rimedio. Ricorrere ad un realismo che non fosse il risultato amaro del disincanto, ma avesse per obiettivo di rimettere l’uomo al centro della società, di mostrare l’essere umano sotto la sua superficie reificata. Così, Lukács finisce per esaltare Honoré de Balzac, per le stesse ragioni di fondo per le quali Adorno apprezza Samuel Beckett. Naturalmente il realismo di Lukács è l’ultimo sussulto di una cultura che si credeva ancora umanista, ma non cade nel vuoto, celebra le baionette di Stalin ad Oriente e lo spettacolo ad Occidente. Il volto dell’angelo, glossando Benjamin è rivolto verso il passato, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle merci davanti a lui. Nello spettacolo, la valenza realista esalta ciò che la statua di Etienne de Condillac ha perduto, la sensazione, che degrada ad abiezione. Quando non si celebrano i veleni dell’idealismo, scatologia, lordure ed oscenità sono oggi ciò che le istituzioni museali prediligono, i corpi – questa nuova materia – abbandonati all’orrore richiamano sulle tavole del palcoscenico estetico il corpo sociale reificato, la fine dell’unità del socius. Una scatologia celebrata si confronta così con l’infanzia di una biopolitica che sogna altri organi, come sono i partiti.
Infine. Parigi, 25 marzo 1912. 19, avenue de Tourville. Scrive Valentine de Saint-Point: “La donna che con le sue lacrime e con lo sfoggio dei sentimenti trattiene l’uomo ai suoi piedi è inferiore alla ragazza che, per vantarsene, spinge il suo uomo a mantenere, pistola in pugno, il suo arrogante dominio sui bassifondi della città. Quest’ultima, per lo meno, coltiva un’energia che potrà anche servire cause migliori.”
Mancano una manciata di anni al 24 ottobre 1917. Ecco l’occasione di una causa migliore che non poteva finire peggio.
Nel 1930 André Breton, sogna la rivolta assoluta, l’insubordinazione, il sabotaggio…lo scendere in strada rivoltella in pugno e sparare a caso, finché si può, tra la folla, ma arriva troppo tardi, la decade dell’illusione era già cominciata, tutto quello che vuole prosperare sotto la dominazione è destinato a riprodurla!
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